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lunedì 30 giugno 2008

Conversare scrivendo

A tutti noi è capitato di pensare ai fatti nostri mentre qualcuno ci parla, o, al contrario, di non riuscire ad interrompere la lettura di un libro o l’ascolto di un oratore.

Gli stili di conversazione sono tanti e diversissimi, come le persone. Ciascuno ha un modo suo. Per questo non ci sono regole precise, se non quella di scrivere pensando di parlare.

Ci sono tuttavia dei piccoli trucchi per rendere più accattivante la nostra scrittura.

Ascoltiamoci quando parliamo.
Non possiamo scrivere come parliamo senza conoscere “l’effetto che fa”. Il che vuol dire “avere orecchio”, fare attenzione a come si introduce una conversazione, come la si sviluppa, quali parole usiamo più spesso, se usiamo espressioni dialettali o scorrette.

Ascoltiamo gli altri parlare.
È utile acquisire informazioni ascoltando gli interventi degli altri. E le loro storie, per arricchire il nostro bagaglio di esperienze e di modi di raccontarle.

Pensiamo al nostro lettore immaginario.
Tutti coloro che scrivono per mestiere hanno un lettore immaginario in testa. Qualcuno a cui si rivolgono, con cui stanno parlando, per cui stanno scrivendo. Se ne sta lì, dietro alla pagina, vede i nostri testi prendere forma e li legge mentre li scriviamo. Che faccia ha? E’ perplesso? Sorride?

Parliamo in prima persona, singolare o plurale che sia.
“Io” o “noi” avvicina, accomuna, accorcia le distanze. “L’azienda”, “gli azionisti” sono altro, distanti e distaccati.
Peggio di tutto l’impersonale: "si dovrebbe", “si farà”. Chissà perché sa di fregatura!

Ascoltiamoci mentre scriviamo.
Usiamo l’orecchio della nostra mente per sentire il suono delle nostre parole. Molti scrittori dicono di sentire molte voci nella loro testa. Su questo preferisco non esprimermi. Posso solo dire che io preferisco sentirne una sola, o almeno una per volta!

Eliminiamo e le formalità.
Spazziamo via tutte quelle parole che “resuscitano” quando scriviamo ma che non ci verrebbe mai in mente di dire se stiamo parlando a qualcuno. “Al fine di”, “nel momento in cui”, “non appena”, “bensì”, “in quanto”. L’odore di naftalina e di stantìo si sente da lontano un chilometro!

Occhio a non eccedere: informale non significa volgare.
Attenzione alle cadute di stile. Niente dialetti, niente parolacce. Emoticon quanto basta ma senza esagerare e sempre che la circostanza lo consenta. In una mail tra colleghi può anche avere un senso, in quella al capo direi di no.

Rileggiamo ad alta voce.
Ci aiuta a concentrarci, a sentire se quello che abbiamo scritto scivola senza intoppi. Ad alta voce i passaggi difficili si sentono subito, così come i periodi troppo lunghi. Si rischia di soffocare prima di arrivare al punto.

Evitiamo gli spinaci tra i denti.
Refusi, punteggiatura sbagliata, preposizioni non proprio azzeccate. Rischiamo di rovinare tutto… e proprio sul più bello!

venerdì 27 giugno 2008

Lo strano mondo della grammatica

Questo brano è stato scritto da Achille Campanile ed è stato pubblicato nel suo "Manuale di conversazione" nel 1973. Una vita fà.

Trovo che sia geniale ed esilarante, oggi come allora.
Per questo ve ne faccio omaggio, sperando di farvi sorridere almeno un po'.

Le grammatiche su cui si studiano le lingue saranno utilissime per impararle, ma non altrettanto per la logica e il buon senso. Il che, tuttavia, non rappresenta un danno in ogni senso. Anzi potrebbe contribuire a dare ai rapporti fra le persone un carattere quanto mai spensierato e fantasioso che conferirebbe alla vita un aspetto dei più piacevoli.

Dalla grammatica inglese:
"Portaste il binocolo?"
"No, ma portai il vostro ventaglio."
Col che si imparano parecchi vocaboli, non c'è dubbio. Ma non è chi non veda un ventaglio esser tutt'altra cosa che un binocolo. Non c'è niente in comune fra i due oggetti. Come è possibile parlare di ventaglio a chi vi chiede notizie del binocolo?
Vediamo: dove e quando e perché si può domandare a qualcuno se ha portato il binocolo? In teatro, o in occasione di una gita in luoghi panoramici, o per esigenze belliche.
Ora, ammetto che in un teatro possa essere utile anche un ventaglio, benché abbia tutt'altra funzione e non sarà certo esso che mi permetterà di apprezzare le bellezze d'un corpo da ballo. Ma su una montagna! Che me ne faccio d'un ventaglio se ho bisogno d'un binocolo?
Non parliamo poi d'una casamatta o della tolda d'una nave da guerra. Immaginate un generale nel suo osservatorio o un ammiraglio sul ponte di comando, che durante l'infuriare della battaglia, dovendo seguire le mosse del nemico, domandi all'aiutante di campo "Portaste il binocolo?" e si senta rispondere "No, ma portai il ventaglio". Anche ammesso che faccia molto caldo, in quel momento il comandante ha bisogno di guardare.
Forse gli autori degli esercizi di traduzione immaginano un mondo di stolidi. Ecco un altro dialogo della grammatica inglese.
"Mamma, comperasti la tovaglia?"
"No, ma comperai il rasoio per tuo fratello".
Una famiglia di pazzi, evidentemente. Pazza la madre, che forse immagina si possa apparecchiare la tavola col rasoio; e pazza la figlia, che dal manuale non risulta essersi minimamente turbata alle parole inconsulte della vecchia insensata.
Ancora:
"Vedeste il mio allacciabottoni?"
"No, ma vidi il vostro colletto e polsini"
Magari qui si può ravvisare un barlume di coerenza, in quanto siamo sempre in materia inerente al vestirsi. Ma c'è un abisso tra la domanda e la risposta.
Uno dei torti degli esercizi di conversazione è per l'appunto di non dare quasi mai la terza battuta. S'imparerebbero molte altre parole, magari non delle più ortodosse. Come rispondereste a uno che vi parla di colletto e polsini, quando voi gli domandate notizie dell'allacciabottoni? È evidente:
"O sei un imbecille, o vuoi prendermi in giro. Come ti viene in mente di rispondermi così?"
E giù una sequela di parolacce, che pure hanno la loro utilità nello studio di una lingua.
In conclusione m'è più volte capitato, nell'esprimermi in una lingua straniera imparata di fresco su una grammatica, di essere quanto mai incoerente. Una volta, a un passante che mi domandava: "Sapreste dirmi dov'è la tale strada?" Mi avvenne di rispondere sulla base di un dialoghetto studiato nella grammatica.
"No, ma so dirvi l'età del cugino di vostro padre."
Il passante rispose con una frase che non capii, perché purtroppo, come dicevo, negli esercizi di conversazione manca sempre la terza replica.
Per tacere degli scorci di vita che si possono cogliere, attraverso quegli esercizi, specie se si diffondono in particolari.
"Eravate con vostro padre?"
"No, ero con l'amico di mio padre, ma le mie sorelle erano con vostra madre; siamo stati a vedere la cattedrale."
Bella brigata di cretini, davvero. Tra l'altro c'è da scommettere che ognuno non capiva chi fossero gli altri, quanto a grado di parentela reciproca, durante questa famosa visita alla cattedrale. Perché è soprattutto sull'indicazione delle parentele che queste frasi risultano sibilline.
Doveva essere una mattina grigia in una città gotica del Nord Europa, una pioggerella leggerissima punzecchiava appena i volti dei passanti. I nostri amici, usciti dall'albergo e avendo lasciato qua e là un certo numero d'imprecisati parenti, andavano in fretta verso la cattedrale con le guide in mano. Nella chiesa semibuia tra le navate, si sbirciavano sospettosi:
"Chi è quello?"
"È l'amico di vostro padre, e io sono la madre di un tale che non c'è, perché io sto con le vostre sorelle."
"E che rapporto di parentela c'è fra voi e l'amico di mio padre?"
"Egli è l'amico del padre delle ragazze che stanno con me e che sono vostre sorelle, mentre voi siete l'amico di mio figlio".
È un groviglio.
"Ed io chi sono?"
"Voi siete il figlio dell'amico di quel signore e il fratello delle signorine che stanno con la madre di un altro vostro amico, che non è qui, e questa sarei io."
Basta, basta, c'è da diventare pazzi.
E notate che queste frasi sono tutte rigorosamente dedotte da quella dell'esercizio, quanto a rapporti di parentela, amicizia e semplice compagnia, tra i partecipanti alla visita della cattedrale.
Durante la quale - è ovvio aggiungerlo - il cicerone avrà zittito:
"Signori, occupatevi della cattedrale, invece che di questi pasticci di famiglia; guardate i vetri istoriati."
Dopo la visita, tornati all'aperto:
"Ed ora andiamo a far colazione?"
"No, ma posdomani arriva il cognato di vostro figlio."
E via in fretta, senza volti, senza cervello, mentre una pioggerella leggerissima fa viscido il selciato fra le basse arcate e i negozi di frutta della grigia città gotica. E si sente nell'aria un odorino di cavoli cotti e di birra, mentre il carillon dei pupazzi metallici suona mezzogiorno nella torre del palazzo di città.
Europa, Europa mia! Quando verremo a liberarti?

giovedì 26 giugno 2008

La comunicazione di crisi 1


Una crisi è l'evento che più di ogni altro mette alla prova le abilità di un comunicatore.
Il dizionario della lingua italiana del professor De Mauro ne dà molteplici definizioni:
1. cambiamento improvviso, positivo o negativo,
2. manifestazione emotiva improvvisa e violenta,
3. situazione di grave incertezza, instabilità, difficoltà,
4. momento decisivo.

Occupandomi da molti anni di comunicazione di crisi, trovo che queste sfumature di significato siano tutte utili a definire e a connotare i contorni ed i contenuti di una situazione di crisi.

Una crisi è quindi:
un evento improvviso,
che produce un cambiamento,
che ha un impatto emotivo forte,
che crea instabilità sconvolgendo equilibri preesistenti,
che può produrre diversi tipi di effetti a seconda di come viene gestito.

Cominciamo a ragionare.

Evento improvviso...
A ben guardare molte delle crisi che coinvolgono industrie e imprese sono tutt'altro che imprevedibili. Anzi, spesso sono direttamente connesse con le attività che svolgono e consistono in difetti di processo o di prodotto, in guasti o inefficienze che non si producono in una notte.
Il che significa che qualsiasi attività porta con sé una certa percentuale di rischio. Analizzare quali e quanti rischi si corrono ogni giorno, valutarne il grado di probabilità e le possibili conseguenze permette di predisporre le contromisure necessarie prima che l'evento improvviso accada o meglio ancora per evitare che accada.

... che produce un cambiamento...
Più il cambiamento è drastico più la crisi viene percepita come grave.
In realtà la nostra struttura mentale ci porta a considerare qualsiasi cambiamento come una crisi. Anche se è positivo. Il che spiega perché molte persone preferiscono l'infelicità conosciuta rispetto all'ipotesi di felicità sconosciuta. Cambiamento significa attraversare una fase di incertezza in cui la situazione non è più quella che era e non è ancora quella che sarà.

...che ha un impatto emotivo forte...
Affrontare un cambiamento produce una reazione emotiva di stress elevato. Significa ridiscutere e riformulare la realtà sulla base di elementi nuovi, spesso sconosciuti o poco familiari. La novità prima di tutto genera paura, poi ansia poi si vedrà. Di solito dopo un po' di tempo il nuovo scenario finisce col diventare consueto, e quindi non più minaccioso.
Studi sullo stress e l'ansia hanno dimostrato che di fronte a fenomeni complessi gli incompetenti sviluppano un livello di ansia notevolmente maggiori dei competenti. Il che significa che meno si conosce qualcosa più se ne ha paura.

... che crea instabilità sconvolgendo equilibri preesistenti...
L'esperienza della perdita dei punti di riferimento conosciuti e consueti è tipica della crescita di ogni individuo (crisi adolescenziali, crisi della mezza età). I passaggi più significativi della crescita personale vengono definiti crisi perché rimettono in discussione le coordinate e i punti cardinali. Sul momento sembra che le certezze debbano andare perdute, ma dopo un po' di tempo spesso si scopre che non è stato così. Quello che è successo, in realtà, ha portato a cogliere una formidabile opportunità: allargare l'orizzonte.

...che può produrre diversi tipi di effetti a seconda di come viene gestito.
La differenza è tutta qui: una crisi può significare disastro o opportunità a seconda di come viene affrontata e gestita. Spesso capita di negare le crisi, con il solo effetto di ampificarne inutilmente le conseguenze e la durata, oltre che aumentare di molto le possibilità che si ripetano.
Stabilito che è meglio affrontarle, si pone il problema di come gestirle. E nei prossimi post vi racconterò come si fa.

martedì 24 giugno 2008

Scrivi come parli

Primo dovere di chi scrive: farsi capire
Albert Einstein diceva "Non sarai mai sicuro di aver davvero compreso qualcosa finché non sarai in grado di spiegarlo a tua nonna".
Quando si scrive accade un misterioso fenomeno: nella nostra testa fioriscono espressioni involute, complicate, pesanti. Parole che non ci sogneremmo mai di usare nel parlare sembrano resuscitare nella lingua scritta, quasi a rivendicare una veste di autorevolezza che parole più semplici sembrano non avere.
Ad esempio: al fine di, a condizione che, nel momento in cui, in relazione a, nel caso in cui, dal momento che e via discorrendo.
Spero non vi sia mai capitato di dire ad un amico al telefono "Attendo un tuo cenno di riscontro più tardi al fine di stabilire dove recarci a mangiare una pizza". Come minimo quello vi chiederebbe se vi sentite bene o se per caso siete vittime di un incantesimo di trasfigurazione, come succede ad Harry Potter!
Eppure se si trattasse di convocare per mail una riunione per discutere di alcuni argomenti importanti ci pare logico scrivere che "è opportuno un incontro collettivo al fine di prendere visione di alcune urgenti criticità". Formula perfetta per uno schiantesimo! Il nostro destinatario se ne starà lì, lungo disteso, intontito da quell'ondata di pesantezza e farragnosità. Per almeno un'oretta sarà KO.

L'aziendalese è zeppo di espressioni pompose, vaghe, arcaiche. Un modo come un altro per darsi un tono, a discapito della comprensibilità.
Ad esempio: sviluppare, mirato/finalizzato a, progettazione, sinergia, scenario, ottimizzazione, risorse, erogare, essere preposto, inerente, conseguire, criticità.

Altra bizzarra abitudine che si attiva quando scriviamo è quella di complicare le parole semplici: i problemi diventano problematiche, i tipi si trasformano in tipologie, i temi assumono la minacciosa veste di tematiche.
Questi fenomeni nel mondo di Harry Potter si chiamano maledizioni senza perdono!

C'è poi un altro caso interessante: quando scriviamo spesso ma viene sostituito da bensì...e fin qui niente da dire, se non che ci si appesantisce inutilmente. Spesso, nella lingua parlata, capita di sentir dire "ma bensì". Proprio perché sono sinonimi, come abbiamo appena detto, sarebbe il caso di scegliere: O ma O bensì. Dire "ma bensì" equilvale a dire "ma ma", giustificabile solo al di sotto dei dodici mesi di età o in caso di balbuzie! Che si risolve facilmente con un incantesimo di illuminazione. A proposito: la formula è "lumos!".

lunedì 23 giugno 2008

Scrivere è come volare


La mia presentazione sul processo di scrittura. Ho voluto descriverlo come quello di un volo, in cui ogni fase deve essere curata con attenzione per garantire il buon esito finale.
I piloti degli aerei hanno la responsabilità, oltre che della loro, della vita dei passeggeri che trasportano.
Se noi scriviamo male non muore nessuno, per fortuna, ma di certo perdiamo l'occasione di sollecitare riflessioni, trasmettere idee e punti di vista, avviare dialoghi basati sulla reciproca comprensione. A ben guardare, anche questi sono "frammenti di vita".

sabato 21 giugno 2008

Maturità: Ministero bocciato!


Si sono appena concluse le prove scritte degli esami di maturità.
La caratteristica di quest'anno sono i clamorosi strafalcioni presenti nelle tracce.
Una delle prove di italiano riguardava l'analisi testuale della poesia di Montale "Ripenso il tuo sorriso", tratta dalla raccolta "Ossi di Seppia" del 1925.
Nella traccia sulla poesia di Montale si chiedeva al candidato di individuare e commentare le parti in cui si parlava tra l'altro del "ruolo salvifico e consolatorio svolto dalla figura femminile". In realtà, secondo quanto rivelato dagli esperti intervistati dai media, i versi erano dedicati a un uomo.
"Il senso non cambia" dicono dal Ministero.
Sarà, però se un testo dedicato ad un uomo viene proposto come rivelatore di tratti femminili il senso cambia eccome! Vorrà forse dire che in questo mondo globale, multirazziale e multiculturale il "genere" non fa più molta differenza?

Che la questione linguistica sia un tema controverso lo dimostrano gli exploit del giorno successivo.
Nella versione di greco al testo Luciano di Samosata ('Il codice etico per lo storico', tratto dall'opera 'Come si deve scrivere la storia') mancherebbe infatti un pronome determinante ai fini della traduzione e della comprensione generale del brano.
E qui si potrebbe dire che il greco è antico, che non si usa più, che una svista può capitare. Ci consola il fatto che, almeno in quella lingua, i pronomi servano a qualcosa e sopratutto facciano ancora la differenza.

Agli studenti degli Istituti tecnici per il turismo è stato invece consegnato un testo d’inglese pieno di errori.
In alcuni casi i commissari di inglese, dopo aver letto la traccia, si sono sentiti in dovere di integrare il testo con parole chiarificatrici scritte a mano. Un commissario di un liceo milanese, Jean Woodhouse, madrelingua inglese, ha addirittura "corretto" la traccia del ministero (con tanto di cancellature e voto finale ovviamente negativo) come se si trattasse di un normale compito dei suoi studenti. In particolare nel testo sarebbero stati utilizzati dei verbi sbagliati, evitato il genitivo sassone e adottato un linguaggio globalmente impreciso.
E stavolta come la mettiamo? L'inglese è una delle lingue più conosciute al mondo. Siamo tutti d'accordo che è indispensabile per lavorare, è una lingua moderna, con una grammatica e una sintassi molto più semplici di quelle italiane.
Conclusione: ce la caviamo male con la nostra lingua, con quelle antiche e con quelle moderne. Torneremo forse a parlarci a gesti?

venerdì 20 giugno 2008

I titoli: il trionfo della sintesi

Un buon titolo è quello che fa capire immediatamente l’argomento trattato e invoglia a proseguire nella lettura. Balza subito agli occhi, quindi deve anticipare il contenuto nel testo. Deve inoltre facilitare la ricerca delle notizie, essere chiaro, accattivante e contenere tutte le informazioni necessarie per illustrare l’argomento. Deve essere, insomma, denotativo e connotativo. Difficilissimo.

Anche a quelli che scrivono 2.000 battute in scioltezza accade di rimanere inchiodati al titolo per mezza giornata!
E quando non lo fanno, perché non hanno tempo, ne vengono fuori alcuni decisamente surreali.
Come ad esempio "Si è spento l'uomo che si è dato fuoco" (Il Giornale di Sicilia). Esatto, per carità. Corretto, non c'è dubbio. Di un cinismo raggelante, tanto da diventare comico.
O come "In cinquecento contro un albero. Tutti morti" (La Provincia Pavese). In questo caso cerchi di immaginare la scena ti viene da domandarti come hanno fatto cinquecento persone ad uccidersi tutte contro lo stesso albero. Si saranno messe in fila? E l'albero, che ne è dell'albero? E' rimasto in piedi?
E tutto per una maiuscola!

Per rendere l'idea di quanto può essere difficile ho ritrovato un libro "Giornalismo amore mio" di Mario Gismondi. Il capitolo sui titoli faceva morire dalle risate me e mio padre (giornalista radiocronista per una vita).

Ve lo trascrivo, sperando che rallegri la vostra giornata.
"Ricordo, per esempio, le vicissitudini di un titolo complicatissimo. La notizia riguardava il figlio del sindaco morsicato dal cane del padre. Lo feci correggere, sembrandomi vagamente ingiurioso, anche se esatto. La seconda stesura fu "Il cane del sindaco morsica il figlio".
Dissi di leggere meglio la notizia e di ricorrere a un titolo meno equivoco, visto che si poteva pensare che fosse il figlio del cane. Il controllo della notizia portò ad una sorpresa: il cane non era del sindaco, ma di suo padre. Ergo il terzo titolo fu "Il cane del padre del sindaco morsica il nipote".
Lo rimandai indietro. Anche questo titolo era infelice e lasciava molti dubbi sulle parentele tra cane e padrone e fra sindaco, padre e figlio.
Ci pensarono e venne fuori : "Il cane del nonno morsica il figlio del sindaco".
Cominciai ad arrabbiarmi, strillando perché mi mandassero finalmente un titolo chiaro e definitivo, e che la smettessero di scherzare. Arrivò "Il figlio del sindaco morsicato dal cane del nonno". Era corretto, nella sostanza, ma quel cane del nonno poteva prestarsi ad ulteriori equivoci.
Bestemmiando, feci un titolo generico, "esterno", come si dice in gergo : "Attenti al cane in casa del sindaco". Troppo divertente e sdrammatizzante per non pubblicarlo e far sorridere lo stesso sindaco. Nel sommario e nell'occhiello fu più facile raccontare chi era stato aggredito dal cane, a chi apparteneva ecc. ecc."

giovedì 19 giugno 2008

La comunicazione è dialogo

Dialogare non è facile. Meglio fare da soli, litigare, obbligare, convincere, obbedire.
Dialogare non è informare, dirigere, ordinare, prevalere, dimostrare.
Dialogare significa essere disposti a cambiare qualcosa di se stessi, fare il primo passo, varcare una distanza, riconoscere la dignità dell’altro.

Il dialogo nasce dall’accettazione, dal riconoscimento della pari dignità delle persone e prevede la rinuncia alle presunte certezze e verità assolute in favore della relazione.

Dialogare non significa necessariamente amare l’altro, o condividerne le ragioni, ma accoglierlo così com’è, ascoltarlo e capire il suo mondo, comprendere il suo punto di vista non filtrandolo attraverso il nostro.

Per parlare con gli altri dobbiamo prima parlare con noi stessi. Dobbiamo ammettere e riconoscere che la nostra educazione, la nostra cultura, tutto il nostro ambiente ci rendono inevitabilmente vittime di pregiudizi e stereotipi. Dobbiamo considerare relativo, e quindi mutevole, qualcosa che siamo abituati a pensare come assoluto. L’ideale è essere così forti da non rimanere attaccati alle nostre opinioni e vincere la paura dell’imprevisto.

E allora saremo capaci di parlare e agire non per prevalere o “dimostrare di avere ragione” ma per riflettere, imparare, condividere un altro pezzo di strada del nostro percorso umano, personale e collettivo.

mercoledì 18 giugno 2008

Decalogo della pessima scrittura

Dal sito di Beppe Severgnini, ottimo giornalista e strenuo difensore del buon italiano, ho estratto quello che lui definisce "Decalogo Diabolico".
Per quanto mi riguarda...sottoscrivo e condivido volentieri!

I Usate dieci parole quando tre bastano.
II Usate parole lunghe invece di parole brevi, sigle incomprensibili e termini specialistici.
III Considerate la punteggiatura una forma di acne: se non c’è, meglio.
IV Fate sentire in inferiorità il lettore: bombardatelo di citazioni.
V Nauseatelo con metafore stantie.
VI Costringetelo all’apnea: nascondete la reggente dietro una siepe di subordinate, e cambiate il soggetto per dispetto.
VII Infilate due o più che in una frase.
VIII Non scrivete “Il discorso era noioso, e i relatori aspettavano l’intervallo” ma “Lo speech era low-quality e il panel s’era messo in hold per il coffee-break”.
IX Usate espressioni come in riferimento alla Sua del..., il latore della presente, in attesa di favorevole riscontro...
X Siate noiosi.

Seguite queste regole e cadrete così in basso che, a quel punto, potete solo risalire.

martedì 17 giugno 2008

L'arte di ascoltare

Sappiamo tutti che alla base della buona comunicazione c’è la capacità di ascoltare.
E siamo tutti convinti di esserne capaci.

Sicuri? Sicurissimi? Sempre? Anche quando andiamo di corsa? Anche quando stiamo leggendo una mail, rispondendo al telefono e ci arriva un sms?

E quando siamo concentrati sul nostro interlocutore, riusciamo a tenere ferma la mente e a non pensare a cosa gli risponderemo tra poco?

Ascoltare è molto diverso da “sentire. E’ molto lontano anche da “rispondere”, lontanissimo da “replicare”. L’opposto di “discutere”.

E allora vale la pena di fare un po’ di ordine, e di raccogliere qualche consiglio, una check list che ci serva a verificare quanto e quando stiamo veramente ascoltando.

Ascolto attivo significa:

sospendere i giudizi, non definire l'interlocutore o quello che dice. Dobbiamo solo seguire il suo pensiero, ascoltate per capire e non per giudicare;

osservare ed ascoltare, raccogliendo tutte le informazioni necessarie sulla situazione contingente;

mettersi nei panni dell'altro, cercare di assumere il punto di vista del proprio interlocutore e condividendo le sensazioni che manifesta;

verificare la comprensione, facendo domande, parafrasando, chiarendo, riassumendo ciò che abbiamo capito o gli aspetti concreti di ciò che l’interlocutore ci ha detto.

Marianella Sclavi ha scritto queste divertenti ''Sette Regole dell'Arte di Ascoltare'':
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti,perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare un metodo umoristico. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sè.

E per finire una carrellata sulle cattive abitudini (e pessima educazione) per riconoscere a colpo d'occhio di quelli che non ascoltano:
interrompono
saltano alle conclusioni
finiscono la frase al posto vostro
cambiano argomento di frequente
non fanno attenzione al linguaggio del corpo
non rispondono a ciò che gli avete detto
non fanno domande e non danno un feedback
cercano di convincervi con la logica
ridicolizzano
interpretano
consolano
danno ordini
mettono in guardia
vi fanno la predica.

Naturalmente queste sono cattive abitudini degli altri, non nostre... vero?

lunedì 16 giugno 2008

Il vizio di leggere

Ci sono solo due modi per migliorare la propria scrittura: scrivere molto e leggere molto. Non ce sono altri.
Victor Hugo diceva “Per imparare, la lettura è come accendere un fuoco: ogni sillaba che viene letta è una scintilla” .
Sono stata fortunata: mi sono appassionata alla lettura da bambina, tanto che mio nonno mi ha insegnato a leggere a neanche cinque anni.
Molti miei coetanei, come me, andavano a letto rigorosamente dopo “Carosello”. Per me c’era un seguito: i libri, i fumetti, le favole, le storie.
Solo molti anni dopo ho capito che dentro i viaggi nei mondi fantastici di questi libri mi stavo costruendo il bagaglio per la mia futura professione. Allora non me ne rendevo conto, ed è stato meglio così.

Leggere può essere pura gioia se stiamo leggendo qualcosa che cattura la nostra immaginazione, che ci spinge ad andare, che crea personaggi meravigliosi, che costruisce nuovi mondi.

Da professionisti, al di là del leggere per piacere, si legge con un occhio alla scrittura, spesso senza neanche accorgercene.
Ciò che impariamo da lettori lo usiamo da scrittori. Nel tempo la nostra scrittura diventa un mix di tutto ciò che ci è piaciuto leggere.

“Al di fuori di un cane, un libro è il miglior amico dell’uomo. All’interno di un cane è troppo buio per leggere” Groucho Marx

Oggi molti ragazzi non leggono affatto, pensando che sia inutile. Niente di più sbagliato. Ma si può rimediare. A qualsiasi età ci si può educare alla lettura. Basta escogitare qualche trucco, a cominciare dal definirla un piacere e non un dovere.

Abituarsi a leggere.
Leggete per 30 minuti ogni giorno per un mese e acquisirete una buona abitudine a leggere.

Scegliete le occasioni per leggere.
Individuate un evento ricorrente e regolare: mangiare, andare a dormire, andare al bagno, andare a scuola o al lavoro usando i mezzi pubblici, le attese (come quelle nelle sale d’aaspetto dei medici). Ogni volta che queste occasioni si presentano leggete.
Io leggo molto prima di addormentarmi. Lo farei anche in altri momenti della giornata, ma non sempre posso.

Portate il vostro libro con voi.
Avere il proprio libro a portata di mano sempre è una buona risorsa. A patto che non sia di quelli che non si riesce a mollare: si rischiano situazioni imbarazzanti!

Leggete di tutto, a cominciare dai buoni scrittori.
Non necessariamente Shakespeare, Tolstoy, Dostoyevsky, Cervantes, Joyce, ecc. ma i grandi narratori, che scrivono con arguzia, che creano grandi personaggi, che dicono qualcosa.
Potete cominciare con le raccolte di racconti: spaventano meno dei romanzi!
Non limitatevi ai vostri generi preferiti: allargate l’orizzonte.
Personalmente suggerisco Garcia Marquez, Pennac, Coben, Follet, Camilleri.

Prendete ispirazione.
Se vi capitano dei passaggi che vi colpiscono, annotateli su un quaderno o al computer.

Analizzate i personaggi, la trama, il tema.
E’ utile riflettere su ciò che si legge: perché lo scrittore ha fatto quelle scelte? Come ha creato e descritto i personaggi? Come ha iniziato il libro e sviluppato la trama?

Fate attenzione a come usano le parole.
I bravi scrittori fanno moltissima attenzione alle parole, all’effetto che creano, al come mischiarle ad altre, a tutti i loro possibili significati.

Divertitevi.
Leggere è gioia pura. Perdetevi pure in tutti i mondi possibili, in tutte le storie più strampalate, in tutte le epoche storiche passate, presenti e future, andate nell'iperspazio o dovunque altro vogliate. Il sorriso spunterà da sé.

domenica 15 giugno 2008

Oggi è giorno di silenzio

Oggi per me è un giorno di silenzio.
E' il primo anniversario di un evento che mi ha colpita moltissimo e a cui non c'è rimedio.
Proprio perché parole non ce ne sono, né ce ne possono essere, tanto vale lasciare uno spazio vuoto, un silenzio, una pausa.
Per riflettere, per ricordare, per capire. O solo per ascoltare il rumore della vita.

sabato 14 giugno 2008

Scrittura e PR


Molto bella questa presentazione sul valore della scrittura nell'attività di Relazioni Pubbliche.
L'ha scritta un collega australiano, Greg Smith, giornalista ed esperto di comunicazione strategica, come me. Il mio omologo all'altro capo del mondo!
In questi giorni ci siamo scambiati delle mail, scoprendo di fare lo stesso lavoro, nello stesso modo e soprattutto con la stessa attenzione alla qualità della scrittura come elemento indispensabile per una buona comunicazione.

venerdì 13 giugno 2008

Il processo di comunicazione



Interessante questa presentazione sul processo di comunicazione, sopratutto nella parte che riguarda la percezione e le distorsioni.
Il che dimostra che fare una buona comunicazione non è semplice come sembra e che è pericoloso improvvisarsi "esperti", come purtroppo succede spesso.
Non basta, e può essere addirittura dannoso, un "bel vestito". E torna alla ribalta la questione di sempre, che divide generazioni di comunicatori: "viene prima l'uovo o la gallina"? Un bel modo di presentare può sopperire alla scarsità di contenuti?
Da stratega e progettista di comunicazione quale sono non ho dubbi: prima viene di destinatario, poi il messaggio, poi la scelta dello strumento e poi la "confezione".
Quindi: prima la sostanza e poi la forma.

giovedì 12 giugno 2008

Comunicazione pubblica


Ottima questa presentazione di Vincenzo Cosenza sulla Comunicazione pubblica.
E' tratta dal suo intervento al Forum P.A. 2008 che si è tenuto a Roma a maggio.
Contiene spunti interessanti e sollecitazioni alla riflessione utili agli enti pubblici che devono applicare la legge 150/2000.
Insegnando da anni in Master di Comunicazione Pubblica so quanto queste considerazioni siano vitali per le persone che lavorano negli URP piuttosto che negli "uffici comunicazione". Quelle che ho incontrato finora sono piene di entusiasmo e animate dalle migliori intenzioni. Spesso sono anche avvilite, perché faticano a trovare interlocutori e strumenti utili a lavorare meglio ogni giorno.
Oltre a quello che insegno in aula, che in parte coincide con il contenuto di questa presentazione, questo è il mio modo di continuare a sostenerli "a distanza".

mercoledì 11 giugno 2008

Zen e scrittura

Questo post è stato pubblicato da Mary Jaksch sul sito Writetodone
Lei segue il buddismo Zen, io ne seguo un altro, ma le considerazioni che fa mi risuonano moltissimo, specialmente quando parla della necessità dell'essere qui e ora e trasformare da avversarie in alleate parti di noi che hanno modalità e fini diversi e per questo spesso sono in conflitto tra loro.
Ho tradotto i suoi consigli perché penso siano una buona base di partenza, soprattutto quando sperimentiamo lo sgomento del "blocco dello scrittore", siamo pressati dalle urgenze e la nostra testa sembra irrimediabilmente vuota!

15 consigli per creare le idee e scriverle con facilità.

La maggior parte dei problemi che nascono nel processo di scrittura provengono dal fatto che la nostra mente è in conflitto con se stessa. In quei momenti la nostra energia creativa si disperde invece di restare concentrata su un’unica direzione.

Come scrittori, soffriamo di una personalità dissociata. Da una parte c’è il Creativo, che vuole riversare idee sulla pagina e si innamora di ognuna delle sue frasi, dall’altra c’è l’Editor che siede lì con le labbra serrate e spunta via gli errori.

E’ molto importante tenere separate queste due personalità!
Quanto stiamo cercando un’idea o la stiamo sviluppando, mandiamo l’Editor in vacanza. Quanto vogliamo rifinire quanto abbiamo scritto, mettiamo il Creativo in gabbia!

I primi 10 di questi 15 consigli libereranno il Creativo, gli ultimi 5 serviranno a dirigere l’Editor.

1. Crea la tua identità.
Dì “io sono uno scrittore”. Potresti sentirti riluttante a dirlo perché non ti senti abbastanza bravo? Bene, dimentica “abbastanza bravo”. Uno scrittore scrive. Tu scrivi? Se sì, tu sei uno scrittore. Tappezza la tua casa di foglietti con su scritto “sono uno scrittore”. Parlane con gli altri. La prossima volta che dovrai riempire un modulo metti “scrittore” come professione. Pensare a te stesso come scrittore accrescerà la tua fiducia e sbloccherà la tua creatività.

2. Pratica la scrittura creativa
Se scrivi soltanto per produrre qualcosa di importante la tua creatività potrebbe rimanere bloccata. E’ importante dedicare del tempo alla scrittura creativa. Potresti dedicare solo 10 minuti al giorno a questo. Dopo tutto anche un grande pianista si esercita con le scale musicali tutti i giorni! Un modo semplice per praticare la scrittura creativa: prendi un foglio bianco e prenditi 5 minuti di tempo. Scrivi per 5 minuti senza fermarti. Non pensare. Fallo. Il primo minuto potrebbe essere difficile, ma poi la tua creatività verrà fuori e ti sorprenderà.

3. Trova l’ispirazione
Il posto migliore per cercare l’ispirazione è… ovunque! Tieni sempre all’erta la tua mente creativa. Immagina di scriver un blog sul blogging.
Ecco come potresti usare la tua esperienza quotidiana come ispirazione:
ti svegli tutte le mattine “Perché la prima mattina è il momento migliore per scrivere”;
fai la doccia “Come tirare fuori 20 grandi idee sotto la doccia”;
fai colazione. “15 motivi per cui una sana alimentazione ti rende uno scrittore favoloso”;
prendi la macchina “10 cose importanti che guidare la macchina ti può insegnare circa la scrittura”
e così via.
Non tutte le tue idee si trasformeranno in un articolo perché alcune saranno bizzarre. Ma bizzarro è buono! Perché qualsiasi cosa fuori dall’ordinario può innescare la tua creatività.


4. Usa un quaderno dove annotare “qualsiasi cosa”
Le idee sono fuggevoli. Ti distrai per una telefonata e dimentichi le idee brillanti che ti erano venute in mente un attimo prima.
Io uso un “quaderno per qualsiasi cosa” per trattenere e raccogliere le idee. Lo porto sempre con me. Ci sono dentro, mescolate, citazioni, idee, ricette di cucina. Il quaderno per qualsiasi cosa non solo ti aiuta ad afferrare le grandi idee prima che svaniscano, ma può esser fonte di ispirazione quando rileggi quello che hai scritto in passato.

5. Sviluppa uno “swipe file”
Un’altra buona idea è quella di creare uno “swipe file”, cioè una cartella dove raccogliere i testi di altri, trovati online e offline, che trovi interessanti. Può essere una buona fonte di ispirazione.

6. Prepara la tua mente meditando
Le idee migliori nascono da l silenzio. Comincia il tuo lavoro di scrittore con 5 minuti di meditazione. Siedi dritto e rimani in silenzio. Concentrati sul respiro e sulle sensazioni del tuo corpo. Ascolta i suoni intorno a te. Lascia scorrere i pensieri. Anche questo breve tempo di meditazione può dare la carica alla tua creatività e farti sentire vivo.*

* Io seguo un insegnamento buddista diverso dallo Zen. Comincio ogni giornata recitando un mantra. Ma l’effetto è lo stesso. ndr

7. Progetta un titolo
Progettando un titolo prima di cominciare a scrivere puoi dare l’avvio e incanalare la tua creatività. Scrivi una lista competa di idee senza scartarne nessuna. Dopo tutto le idee generano idee. Quando hai un ricco elenco, seleziona un titolo buono abbastanza per cominciare. Lo potrai perfezionare più tardi.

8. Delinea la struttura del testo.
Una volta che hai il titolo, sviluppa la struttura del testo.
Ad esempio, se il tuo titolo è “20 consigli per scrivere posts migliori” scrivi i numeri da 1 a 20 uno sotto l’altro. Questo sollecita la tua creatività. Il tuo cervello ora sa che tu stai cercando 20 sottotitoli. Decidi la lunghezza del tuo testo e suddividila per le sezioni. Per esempio, se hai deciso di scrivere un testo di 1.000 parole, suddividile per i 20 consigli e saprai che per ogni punto il testo dovrà essere di 50 parole.
Quando hai scritto il testo, controlla ogni punto con il conteggio parole.
Appena raggiungi la lunghezza stabilita, spostati al punto successivo. Questo sistema è più efficiente rispetto allo scrivere più di quello che serve e dover tagliare poi drasticamente il testo.

9. Lascia l’attacco e la chiusura alla fine
Se cominciamo dall’introduzione potremmo bloccarci. L’inizio serve ad introdurre il tema. Ma all’inizio della stesura di un progetto potremmo non sapere esattamente che cosa andremo a dire. Per questo è meglio scrivere l’introduzione più tardi.
Una volta completata la prima stesura è il momento di aggiungere un’introduzione e una conclusione.
L’introduzione può essere breve ma bisogna che dica perché l’argomento è importante o sottolinei i vantaggi che derivano dalla lettura del testo. La conclusione dovrebbe legate tutto insieme.

10. Chiedi al tuo Editor interiore di dare un’occhiata
Aspetta di aver finito la tua stesura, poi lascia che il tuo Editor dia uno sguardo al tuo lavoro. Ricorda che la prima stesura non deve essere buona. Tutto ciò che ti serve è una certa quantità di parole sul foglio focalizzate su un tema particolare. Ora l’Editor sta andando a dare forma e a “ripulire” il tuo testo.

11. Controlla
Il tuo testo è coerente con il titolo? Il primo compito dell’Editor è controllare se il testo ora rispecchia la promessa del titolo. Se non è così dovrai cambiare il titolo o modificare parte del testo.

12. Verifica equilibrio e lunghezza
Controlla se le sezioni sono ragionevolmente pari in lunghezza.
Se sono troppo lunghe, puoi dividerle in due. Se sono troppo corte puoi unirle in una. Controlla il numero complessivo di parole. Il tuo testo è troppo lungo? In questo caso devi sfrondarlo per bene. Se invece il tuo testo è troppo corto devi aggiungere altro materiale.

13. Cura ogni frase
Leggi il tuo testo ad alta voce, frase per frase. Le orecchie sono più affidabili degli occhi in questa circostanza. Pesa ogni parola. Puoi tagliare? Puoi dirlo meglio? La revisione è il punto cruciale della buona scrittura. Qualche volta è utile rinviare questo passaggio ad un altro momento. Una pausa può servire a prendere la giusta distanza dal testo.

14. Controlla grammatica e ortografia
Un buon modo per controllare grammatica e ortografia è leggere il testo al contrario. Altrimenti il nostro occhio tende a saltare oltre gli errori senza metterci in guardia.

15. Leggi il tuo testo ad alta voce
Ora il tuo testo è veramente finito. Per essere sicuro di averlo fatto al meglio esegui questi due ultimi compiti: stampa il testo e leggilo ad alta voce. Assicurati di avere una penna a portata di mano. Ti accorgerai di cose che vuoi cambiare e potrai annotarle.

Il potere dello Zen per la scrittura significa scrivere con una mente calma e concentrata. Molti problemi di scrittura sono basati sul conflitto fra il Creativo e l’Editor. Tenere questi due aspetti separati sarà un vantaggio per la tua creatività e renderà più fluida la tua scrittura.

martedì 10 giugno 2008

Il valore del dialogo


Molto bella questa presentazione sul valore dell'esperienza.
Parla di dialogo, di interazione, di confronto, di insegnare e di imparare, di parlare e di ascoltare.
Descrive un processo circolare, senza gerarchie o ruoli, in cui ogni singola persona è una risorsa, ogni conoscenza moltiplica il suo significato quando viene condivisa, ogni diversità è una ricchezza.
E mi viene in mente quanto dice una persona per me importantissima, Daisaku Ikeda "Un insieme di persone saldamente unite tra loro ha una potenza molto maggiore della semplice somma delle energie individuali."

lunedì 9 giugno 2008

Le e-mail secondo Seth Godin

Nel suo blog Seth Godin ha pubblicato qualche giorno fà una check list sulle e-mail, o meglio sul "galateo delle e-mail".
L'ho trovata divertente. Penso che molti dei consigli che contiene siano ovvi, qualcuno francamente imbarazzante.
Almeno credo. O spero.

Di seguito qualcuna di queste perle di saggezza:

Ciascuna delle persone della mia lista ha realmente scelto di starci? Lo ha chiesto?

Se non gli mando questa mail, si lamenteranno di non averla avuta?

Ho scritto in carattere nero e corpo normale?

Sono arrabbiato? (Se è così, è meglio salvare il messaggio come bozza e riconsiderarlo tra un’ora).

Sto tenendo all’oscuro il mio capo? Se è così, cosa succederà se il destinatario viene scoperto?

C’è qualcosa in questa mail che non vorrei fosse letto da un avvocato, da un giornalista o dal mio capo? (Se è così, cancellate immediatamente).

Ho incluso in fondo al testo la scritta “Per favore, salva il pianeta. Non stampare questa mail”? (Se è così, per favore cancellate questa riga e prendete in considerazione un lavoro da guardia forestale o da assistente di volo).

L'ultima considerazione mi pare la più sensata:
Se dovesi pagare 42 centesimi per mandare questa mail, lo farei?

sabato 7 giugno 2008

Americani, presidenti e razze

Uno splendido articolo sull'eccellente sito Pointeronline, solleva una questione che sta investendo la qualità professionale dei giornalisti americani.
Da sempre in America si fatica a parlare apertamente di problemi etnici e razziali, tutt'altro che risolti, specialmente sui media.
Tanto è vero che esistono una serie di vocaboli, dal suono più o meno offensivo, per definire coloro che non sono WASP: “nero”, "di colore", “afro-americano”, “latino”, “ispanico” ecc.
Un po' come da noi con gli "extracomunitari", insomma.
Fatto sta che il Pointer solleva la questione di come i media hanno presentato agli americani e al mondo intero la candidatura di Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
In particolare si chiede: Barak Obama sta realmente “cercando di diventare il primo presidente nero” come molti giornalisti hanno scritto? Questa frase, o le sue varianti, sono state un gancio per molti articoli e suggerisce che Obama sta perseguendo un obiettivo razziale e non politico.

Titoli come:
“La questione della razza è affiorata ancora per l’uomo che cerca di diventare il primo presidente nero” (ABC);
“Obama, che combatte per diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti oltre che uno dei più giovani” (Associated Press);
“Obama tenta di diventare il primo presidente nero” (Shanghai Daily)
rimbalzano dagli Stati Uniti in ogni angolo del mondo.

Questi titoli sono fuorvianti ed inesatti poiché mistificano la realtà dei fatti, e cioè che Obama:
1 vuole essere presidente,
2 se verrà eletto, sarà il primo presidente nero.
La semplificazione giornalistica in questa circostanza consiste nel mettere insieme due fatti diversi, facendoli diventare uno e dire arbitrariamente “Vuole essere il primo presidente nero”.
Poiché il candidato non ha messo la questione razziale al primo posto nei suoi obiettivi, o si hanno le prove che questa sia la sua motivazione oppure questa è una supposizione mascherata da fatto.
Per amore di accuratezza, il Pointer suggerisce di separare il fatto dalla motivazione. Un esempio di "buon titolo" è quello scritto nel sito della televisione spagnola eitb24 “Obama ora è il primo uomo di colore a correre per la nomination del maggior partito alle elezioni presidenziali in USA. Se vincesse diventerebbe il primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti”.

Ricordando che la missione dei giornalisti è informare e non giudicare, il Pointer suggerisce di rispondere a tre domande per il pubblico:
Cosa ha detto? Non riportate i discorsi in forma di parafrasi o brani parziali ma per intero.
Perché è importante? Fornite indicazioni sul contesto, definizioni, qualsiasi cosa di cui il vostro pubblico abbia bisogno per comprendere cosa succede. Non supponete che tutti conoscano la stessa storia. Non è così.
Cosa significa? Quando Geraldine Ferraro ha detto “Se Obama fosse stato un bianco, non si troverebbe in questa posizione” nessuno si è preoccupato di spiegare cosa voleva dire.

L'articolo si chiude con un richiamo alla responsabilità professionale dei giornalisti in vista della seconda, presumibilmente accesissima, fase della campagna elettorale.
Meno male: tutto il mondo è paese!

venerdì 6 giugno 2008

8 qualità per vivere bene


Fa riflettere questa presentazione che indica 8 qualità per una vita di successo.
Leggendola viene da pensare che queste qualità in fondo sono quelle proprie dell'espressione positiva del potenziale individuale, dell'atteggiamento attivo, della consapevolezza e della responsabilità. Mi pare un buon modo per indicare il passaggio epocale che stiamo vivendo, dalla contrapposizione alla cooperazione, dalla delega alla partecipazione.

giovedì 5 giugno 2008

L'alfabeto delle presentazioni


Molto divertente, oltre che utile, questa "presentazione sulle presentazioni".
Consigli utili proposti in modo divertente. Ecco come si fa.

mercoledì 4 giugno 2008

Errori su Internet

Sul sito della Ferpi si può trovare un interessante articolo intitolato "I sette peccati di internet"

Contiene i consigli di Olly Swanton, fondatore di Way to Blue, agenzia inglese leader in Europa nelle PR digitali, per avere successo sul web.
Di seguito una sintesi di quelli che Swanton identifica come errori frequenti nella comunicazione online.

Superbia
I media digitali non possono essere inseriti nel piano di comunicazione all'ultimo momento, né si può trasferire su di essi in modo pedissequo la strategia elaborata per i media offline.

Invidia
Nonostante le tentazioni, è utile mantenere la propria identità e i propri valori a dispetto dei successi degli altri.

Ira
E' meglio evitare di inserire messaggi online sulla spinta del momento. La strategia di comunicazione di solito è concepita a lungo termine. La comunicazione online dovrebbe essere concepita nello stesso modo.

Accidia
Da fuggire i messaggi retorici e ingannevoli. Meglio tacere. Trasparenza, onestà e schiettezza sono più faticose ma pagano di più. Il che vuole anche dire essere disposti a soddisfare le richieste di informazioni ulteriori rispetto a quelle fornite.

Avarizia
Una volta stabilito il dialogo, occorre mantenerlo offrendo nuovi contenuti e informazioni.

Gola
E' utile garantire un flusso costante delle informazioni, sempre nuove e diverse. La qualità è più importante della quantità.

Lussuria
Spiegare con termini semplici ciò che vogliono trasferire ai media, altrimenti può sembrare che ci si stia nascondendo dietro ai tecnicismi.

martedì 3 giugno 2008

Il genio dagli occhi tristi

Yves Saint Laurent se n'è andato. L'ultimo puro genio, l'artista, il provocatore ha lasciato un mondo a cui da tempo non apparteneva più.
Ho lavorato per lui. E ha lasciato il segno. Un segno importante, decisivo, specialissimo. A venticinque anni, fresca di Master e con tanto entusiamo, fui chiamata a curare le Relazioni Esterne della filiale italiana della Divisione Parfums. Dopo due mesi mi fu affidato anche il marketing delle fragranze, “core business” dell’azienda.
E’ cominciata così la mia avventura professionale, scaraventata in un mondo dorato e scintillante dove pareva non esserci spazio per la debolezza e ancor meno per l’umanità.
Eppure era proprio l’umanità di quest’uomo che si respirava nelle stanze di Palazzo del Drago a Roma, con la moquette e le pareti rivestite di boiserie, quasi che non si dovesse far troppo rumore per “non disturbare”.
Consideravamo una fortuna che lui fosse l’unico dei grandi stilisti ad essere ancora vivo. Un genio in carne ed ossa, di cui aspettavamo le collezioni per vedere come cambiava il mondo attraverso i suoi occhi.
Conoscevamo la sua storia, ma soprattutto sapevamo che non c’entrava niente con il business creato intorno al suo nome. Lui disegnava e basta, chiuso nelle sue stanze e nei suoi pensieri, e tutta l’azienda era lì a proteggere quest’uomo fragilissimo dalle brutture del business. A quello pensava Pierre Bergé.
Che non fosse attento al business lo dimostra tutta la sua storia.
Rivoluzionario e provocatore, come tutti i geni aveva il dono di andare “dritto al punto” e poteva permettersi di dare scandalo. Nel 1971 ha posato nudo per “Homme” il suo profumo. Nel 1977 ha lanciato “Opium”, una fragranza che nessuno è riuscito a eguagliare, con il flacone rosso lacca di forma simile ai cestini in cui si ripongono le bacche di oppio. Dopo trent’anni è ancora lì.
Nel ’93 la società è stata venduta al gruppo Sanofi, l’inizio della discesa e la fine della mia esperienza con loro. Nel '99 è arrivato il gruppo Gucci, la multinazionale, il business galattico. Niente a che vedere con lui, che si è fatto ancora più indietro dichiarando di sentirsi ormai estraneo a un mondo "quello della moda, che trovavo orribile". Bergè era d’accordo: "tutto è ormai troppo commerciale, manca la vera creatività".
La sua trasgressione più grande è stata quella di rendere pubblici la sua fragilità e il suo tormento oltre alla sua vocazione.
In un mondo fatto di apparenza e di finta allegria, lui non si è mai nascosto, si è mostrato fragile ed esitante, la camminata incerta sulle passerelle, tenuto per mano, lo sguardo stupito e confuso di un bambino a cui è stata fatta una festa a sorpresa.
Nel 2002, alla chiusura della Maison, ha scritto una lettera-testamento, il manifesto di una vita fatta di altissima ispirazione e di altrettanto profonda sofferenza: "Ho sempre vissuto per questo mestiere, l'ho sempre amato e rispettato fino in fondo.
La moda non è un'arte ma ha bisogno di un artista per esistere, gli abiti sono sicuramente meno importanti di musica, architettura e pittura, ma era ciò che sapevo fare e che ho fatto, forse, partecipando alle trasformazioni della mia epoca".
"Oggi non si lavora più solo per rendere le donne più belle ma anche per rassicurarle. In molti soddisfano i fantasmi del loro ego attraverso la moda, mentre io ho sempre voluto mettermi al servizio delle donne, servire i loro corpi, i loro gesti, le loro stesse vite".
"Ho conosciuto quei falsi amici che sono i tranquillanti e le droghe e la prigione della depressione e delle cliniche. Faccio parte di quella che Marcel Proust chiama: "la magnifica e lamentosa famiglia dei nevrotici".
Ho deciso di parlare di lui oggi perché glielo devo. Perché grazie a lui ho imparato da subito a distinguere il business dalle persone, i target dall’umanità, il valore commerciale da quello umano.
E mai come adesso, che questi “distinguo” sono diventati un imperativo anche per chi finora ha cercato di ignorarli, sento il dovere di dargli atto di aver, ancora una volta, anticipato i tempi e testimoniato quanto sia vuoto e insignificante il business senza umanità.

domenica 1 giugno 2008

Il marketing è morto?

“Societing”, l’ultimo libro di Giampaolo Fabris, contiene un pesante j’accuse rivolto alle imprese che faticano a modificare i loro comportamenti continuando a puntare su un’apparenza che non è sostanza, su una logica di persuasione piuttosto che di relazione.
In un’intervista rilasciata a “La Stampa” Fabris, guru della società dei consumi, docente di Scienze della comunicazione all'Università San Raffaele, che dal ‘77 monitorizza i cambiamenti socioculturali della società italiana, lancia accuse pesanti alle imprese. Riporto i passaggi che mi sembrano più significativi, soprattutto per ridefinire il ruolo dei comunicatori d’impresa, che dovrebbero essere i primi promotori della nuova cultura della “relazione” e della “responsabilità”, ancora lontana dall’essere condivisa.

«Societing», neologismo di sociologia e marketing, contiene provocazioni lanciate a imprenditori che, nella società postmoderna in cui il consumatore non è più subalterno, tantomeno fidelizzato, ma un informatissimo poligamo a caccia di esperienze, si affidano a strumenti ormai inadeguati come le ricerche di mercato.
«Il marketing è una scienza morta, ormai chi spende sceglie da solo».

Fabris punta il dito sulle griffe Made in Italy che applicano ricarichi enormi sui loro prodotti tacendo sulle condizioni di sfruttamento di chi la produce. Ma non solo.
«Nessun moralismo, mi preoccupo di difendere il nostro sistema d'imprese. Reagire con una insensibilità che sfiora la connivenza a scandali come quelli sul Brunello di Montalcino, è un errore drammatico. (…). Societing vuol dire responsabilità sociale dell'impresa che deve rendere conto del proprio operato. Nel libro cito i focus group che abbiamo fatto nei supermercati durante gli scandali Cirio e Parmalat. Nonostante avessero ottimi prodotti, abbiamo registrato un atteggiamento di astio verso questi marchi. Cirio e Parmalat erano vissuti come colpevoli di aver carpito la buona fede di tante famiglie».

«La crisi dei consumi è un fenomeno congiunturale, io faccio un discorso strutturale. Dietro al fallimento di tanti prodotti c'è anche la mancanza di conoscenza del passaggio epocale che stiamo vivendo. Quante previsioni di certi sociologi si sono rivelate sbagliate! Prevedevano una società fatta da un enorme corpaccione di ceti medi omologati, una società tutta orientata alla modernità. (…) Nella società postmoderna e neobarocca c'è invece una dirompente voglia di comunità; sono sorte vere e proprie tribù attorno ai nuovi totem, le marche o le modalità di consumo; il mercato è un luogo di conversazione e il consumatore è un individuo "flâneur". Il nomadismo, la citazione, il mélange sono veri simboli di quest'epoca. Non solo. C'è una incredibile esplosione di polisensorialità, non solo il tatto, ma anche l'olfatto è decisivo nelle scelte. Negli ultimi anni la leadership del mercato delle cere e dei detersivi si è giocata sulla capacità di offrire una gamma di essenze. (…)
«Prendiamo tutta l'economia low cost: è ben più che vendere a prezzi stracciati; 19 milioni di italiani sono collegati a Internetogni medio consumatore possiede un livello alto d'informazioni e, navigando di sito in sito, sceglie dal divano all'albergo per le vacanze. Le aziende italiane non hanno capito questo fenomeno».
«La vera via è quella coinvolgimento del consumatore nella produzione. L'esempio è Wikipedia, l'enciclopedia redatta in progress e gratis da milioni di esperti amatoriali. A Times Square la Nike ha installato un megaschermo sul quale i passanti, via sms, potevano progettare la loro scarpa ideale; il nuovo boy friend di Barbie è stato progettato da due milioni di persone».
«Ogni volta che si parla di "non etica" il marketing è in prima fila sul banco degli accusati. Non ha senso finanziare l'orso bianco e, poi, produrre accessori sfruttando il lavoro di tanti poveracci».

Niente mezze misure, insomma. Piuttosto la constatazione di un dato di fatto che, paradossalmente, non è noto proprio a chi, con gli strumenti a disposizione per "monitorare" e "sondare", dovrebbe seguire i cambiamenti, se non addirittura anticiparli.
Il che ancora una volta dimostra che "ascoltare" è diverso da "sentire" e che "vedere" è diverso da "guardare". E che questa differenza non è solo un bizantinismo semantico ma indica atteggiamenti manageriali opposti: chi sa ascoltare ha un futuro, chi si ostina a non farlo non andrà lontano.